Dalla Piana dei Colli a Beccaria: la mafia come ferita sociale e la pena come questione civile

“La mafia dei giardini. Storia delle cosche della Piana dei Colli” non è soltanto un racconto di famiglie criminali che hanno intrecciato i loro interessi con la bellezza di un territorio. È la fotografia di come il crimine organizzato riesca a infiltrarsi anche negli spazi apparentemente più idilliaci, trasformando i giardini della nobiltà palermitana in retrobottega di affari illeciti, controllo sociale, violenza quotidiana.
I giardini, simbolo di pace e cultura, diventano così teatro di sopraffazione.

In questo scenario, torna di attualità la lezione del “Dei delitti e delle pene”: la criminalità non è mai solo questione di sangue e pistole, ma di potere, disuguaglianze, mancato rispetto delle leggi. Cesare Beccaria ricordava che la pena non può essere vendetta, ma deve avere una funzione sociale: prevenire, educare, ridurre il male invece che moltiplicarlo.

Se si leggono i due testi uno accanto all’altro, emerge un filo rosso: la mafia non nasce nel vuoto, ma si radica dove lo Stato è assente o complice, dove la giustizia si fa lenta e la comunità non ha strumenti di difesa. La Piana dei Colli diventa così un laboratorio della criminalità organizzata, mentre la riflessione illuminista di Beccaria resta un faro che denuncia ancora oggi l’uso distorto delle pene, troppo spesso inefficaci o piegate a logiche emergenziali.

Il punto di incontro è questo: raccontare la mafia senza affrontare la questione criminale nella sua radice etica e giuridica significa fermarsi alla cronaca. Leggere Beccaria senza guardare alle ferite reali del territorio significa chiudersi in un astratto esercizio di filosofia. Insieme, invece, i due libri mostrano la necessità di una doppia prospettiva: capire come il crimine si organizza e come lo Stato deve rispondere, non con la vendetta, ma con la forza della giustizia.

Forse, il messaggio più forte che viene fuori è che la mafia non si sconfigge solo con i processi e le condanne, ma restituendo dignità, servizi e diritti ai territori che l’hanno subita. Proprio come Beccaria ammoniva: una pena giusta e certa vale più di cento esecuzioni spettacolari.

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