Un capannone sfondato, portoni aperti, cumuli grigi fino al soffitto, ben visibili persino dalla strada che costeggia la zona industriale di Bragno, frazione di Cairo Montenotte. Dentro, tonnellate di ceneri provenienti dall’inceneritore di Torino, accatastate in un deposito che sembra uscito da un film di denuncia, ma purtroppo è reale, e porta con sé tutte le domande che nessuno vuole porre.
Il TGR Liguria ha documentato in queste ore la situazione: 27.100 metri cubi di ceneri ammassate, a fronte di un’autorizzazione provinciale che ne prevedeva solo 4.500. A questi si aggiungono altri 4.100 metri cubi di materiale pretrattato. Un quadro da codice rosso, per cui la Procura di Genova aveva già disposto un sequestro nel 2022.
Eppure, oggi, il capannone è lì: tetto in parte sfondato, accesso libero, nessuna vigilanza. Persino un bambino potrebbe entrarci, senza incontrare un solo cartello di divieto.
Dove erano i controlli?
È la domanda più semplice e allo stesso tempo più scomoda.
Dov’erano gli enti di controllo, i funzionari, gli amministratori che oggi parlano di “economia circolare” e “impianti di nuova generazione”? Dov’era la Provincia, che aveva concesso un’autorizzazione da 4.500 metri cubi e ne ha trovati oltre 27 mila?
Dov’era l’ARPA, dov’era la Regione Liguria quando tutto ciò accadeva?
Chi oggi si propone come garante di un futuro “termovalorizzatore moderno” in Val Bormida dovrebbe prima spiegare come sia stato possibile che in questa stessa valle si accumulassero, nel più totale silenzio, montagne di scorie tossiche.
La realtà dietro le parole
A parole, si parla di impianti puliti, di emissioni controllate, di tracciabilità.
Nei fatti, a Bragno c’è un capannone che smentisce tutto: nessuna tracciabilità, nessuna sicurezza, nessuna trasparenza.
Le immagini trasmesse dal TGR Liguria sono più eloquenti di mille conferenze stampa: porte spalancate, tetto bucato, polvere ovunque.
Una ferita aperta nel cuore della Val Bormida, che da anni paga sulla propria pelle i costi ambientali e industriali della Regione.
L’inceneritore che verrà (forse)
Ironia della sorte, o meglio, della politica: Bragno era anche una delle aree citate tra i possibili siti per il nuovo inceneritore regionale.
È come proporre di costruire un nuovo condominio sopra le macerie di quello appena crollato.
E mentre comitati e cittadini si oppongono all’ennesimo progetto “calato dall’alto”, la vicenda del capannone delle ceneri mette in luce il vero problema: una totale mancanza di credibilità.
“Non elimina rifiuti, li trasforma in ceneri tossiche”
Così commentano dal Coordinamento No Inceneritore in Val Bormida, che da settimane denuncia un approccio vecchio, inefficace e pericoloso.
“Non è economia circolare, è un cerchio vizioso – dicono –. Le ceneri dell’inceneritore finiscono in depositi insicuri, e ora vogliono costruirne un altro.”
Difficile dar loro torto, guardando Bragno.
Un dovere di chiarezza
Oggi non bastano promesse né piani futuri. Servono nomi, responsabilità e controlli veri.
Chi ha autorizzato quel deposito? Chi doveva monitorarlo? Chi doveva bonificarlo?
E soprattutto: chi pagherà, ora, per la rimozione e la messa in sicurezza di tutto quel materiale?
Finché non arriveranno risposte, qualsiasi discorso su un “nuovo impianto” nella valle resterà soltanto una provocazione ambientale e politica.
Perché chi non è stato in grado di vigilare sul passato non può pretendere fiducia per gestire il futuro.
Bragno è il simbolo di ciò che accade quando l’ambiente diventa un paragrafo e non una priorità.
Un capannone sfondato, 27 mila metri cubi di silenzio e la consueta rete di giustificazioni istituzionali.
Prima di parlare di nuovi impianti, sarebbe il caso di chiudere i buchi, non solo nei tetti ma nella credibilità pubblica.
Fino ad allora, la risposta resta la stessa: credibilità zero.
IL SERVIZIO DEL TG3






