Il declino di un servizio con meno sicurezza, meno lavoratori, stessi incassi
La sentenza del Tar del Lazio che conferma la multa da cinque milioni inflitta ad Autostrade per l’Italia dall’Antitrust non è soltanto una sanzione economica: è una fotografia impietosa di come il servizio autostradale sia degenerato negli ultimi anni. E non è solo questione di asfalto malmesso o viadotti a rischio: è anche, e forse soprattutto, questione di scelte aziendali miope, che penalizzano gli utenti e mettono in crisi i lavoratori.
Il motivo della sanzione è chiaro: pedaggi pieni anche su tratti in condizioni critiche, dove gli utenti si ritrovano in interminabili code, rallentamenti, deviazioni e restringimenti per lavori causati da anni di carente manutenzione. Autostrade, pur sapendo di offrire un servizio ridotto e spesso disagevole, ha incassato come se tutto fosse perfetto. L’Antitrust ha ritenuto che la mancata riduzione delle tariffe in quei tratti rappresentasse una pratica ingiustificata e ingannevole nei confronti degli automobilisti. Il Tar ha confermato: la multa è legittima.
Il problema, però, è ben più ampio e strutturale. La storia recente della rete autostradale italiana, dalla tragedia del Ponte Morandi al distacco nella galleria Bertè, è punteggiata da segnali di allarme ignorati, manutenzioni rimandate, sicurezza trascurata. E mentre le tariffe aumentano e i disagi crescono, Autostrade sceglie di agire in un’altra direzione: tagliare il personale.
È notizia recente che l’azienda starebbe riducendo drasticamente – fino al 70% rispetto all’anno precedente – il numero di lavoratori stagionali impiegati nei periodi estivi. Il tutto in un contesto già segnato da straordinari in aumento, carichi di lavoro insostenibili e turni massacranti per il personale in servizio. Il risultato? Meno operatori ai caselli, meno assistenza agli utenti nei momenti di massima affluenza, meno sicurezza, meno controllo. E, naturalmente, più code e più caos.
La giustificazione ufficiale si appoggia su iniziative di “non presidio” delle stazioni, ma appare evidente che dietro ci sia una logica tutta orientata al risparmio, alla compressione dei costi, senza alcuna reale attenzione né per la qualità del servizio né per le condizioni dei lavoratori. A farne le spese sono tutti: utenti che pagano per restare fermi, dipendenti sotto stress e senza tutele, territori attraversati da infrastrutture degradate.
Dov’è finita la promessa – più volte sbandierata – di un “nuovo corso” dopo il dramma di Genova? Quale rinnovamento si può evocare quando le logiche del profitto sembrano contare più della sicurezza e della dignità del lavoro?
Il governo, che a parole promette vigilanza e discontinuità, continua a tollerare. I sindacati denunciano, ma senza risposte dall’azienda. Intanto, a pagare siamo noi: automobilisti trasformati in bancomat ambulanti, lavoratori spremuti fino all’osso e territori che restano ostaggio di infrastrutture sempre più fragili.