Il fim della settimana: La verità negata

  La verità negata, di Mick Jackson, Rachel Weisz, Tom Wilkinson, T. Spall, produzione  Usa, anno 2016, genere biografico, durata 110 minuti.

Storia ispirata a fatti veri: il processo per oltraggio messo in moto dalla denuncia di uno studioso dell’olocausto, contro l’imputata Deborah Lipstadt di origini ebree.

Per la legge britannica una persona che offende a ragion veduta – facendo cioè riferimento a fatti storici o di costume civile, tratti da libri, film, stampa, TV, dichiarazioni di intellettuali, delibere di consessi internazionali, istituzioni culturali governative, etc. – un cittadino, un popolo, un’istituzione,  la memoria di un criminale di guerra certificato da processi, deve risponderne in tribunale e se dimostra che ciò che ha detto è effettivamente vero viene assolto altrimenti va incontro a una condanna anche severa.

Deborah Lipstadt, ebrea,  deve quindi dimostrare che lo sterminio del suo popolo  (circa sei milioni di persone) avvenne realmente.

Ottime recitazioni per un film indimenticabile.

Il razzismo, noto per fare di tutta un’erba un fascio, destabilizzando quindi per lungo tempo, quando assume proporzioni estese, tutto un sistema di vita civile, come accadde in Germania dopo il declino della repubblica di Weimar, rappresenta nella storia umana una delle piaghe più dolorose del vivere civile, qualcosa in grado a volte di assumere toni evolutivi tragici, incontrollabili e portare a stermini di massa. Quest’ultimi per la loro vastità sono facilmente certificabili nella loro entità di base, e in varie forme, come dimostrano in diversi casi le fotografie scattate dagli stessi partecipanti allo sterminio o da spie giornalistiche infiltrate, o le testimonianze dirette dei superstiti, o i processi internazionali, i filmati, o le visite dei media durante e dopo i fatti nei luoghi interessati sentendo la gente del luogo, o le registrazioni radio e telefoniche rimaste, o nei stermini più recenti le immagini satellitari, o i resti di giornali del luogo, etc.

Quando il razzismo viene sconfitto, almeno provvisoriamente, come è accaduto in Germania dopo 12 anni di vergognoso governo nazista, esso rilascia qua e là per lungo tempo, nostalgici e tenaci uomini razzisti, che in preda a forme di paranoia ostinata (perché inconsapevole), studiano come mettere in dubbio o vendicarsi di ciò che in merito a certe  tragedie la storia ha già ampiamente documentato nella sua generalità  condannando, e che può quindi, eventualmente, con  ulteriori studi, solo approfondirne le responsabilità o scoprire specificità sul come sono avvenuti certi episodi, ma senza poter mai mettere in discussione il fatto in sé.

Il caso della ebrea Deborah Lipstadt lo dimostra, utilizzando una norma di legge britannica di per sé giusta, ma finalizzata solo a un normale e corretto vivere civile, un intellettuale, ideologicamente fanatico e malato di soggettivismo, prende di mira giudiziariamente una povera donna ebrea, con il solo pretesto che essa si lascia andare ogni tanto a imprecazioni più o meno sottili contro alcuni responsabili (assodati) dell’olocausto.

Film di alto valore pedagogico, perché fa da specchio a una realtà, quella odierna, che rilascia quotidianamente gravi episodi di intolleranza, chiaramente di impronta razzista, un razzismo manifesto, sordo e cieco, che è tale in quanto viene rifiutata da chi ne è affetto una elaborazione più profonda di ciò che di altro  lo costituisce nell’inconscio.

 Biagio Giordano

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